Lo sviluppo sostenibile è sempre più minacciato da un arretramento che appare inquietante: non è più solo una questione tecnica o economica, ma una battaglia politica, culturale e mediatico-industriale.
Dopo anni di progressi che hanno finalmente portate le rinnovabili ad essere preferibili anche sotto l’aspetto economico, la transizione energetica rischia di essere rallentata, se non neutralizzata, da un potente contrattacco dei soggetti legati all’industria fossile; e i segnali emergono con chiarezza sia sul palcoscenico internazionale che in Italia.
La COP 30 recentemente conclusa a Belém, Brasile, avrebbe potuto essere un momento decisivo per la decarbonizzazione: molte delegazioni avevano spinto per un impegno esplicito, una roadmap vincolante per uscire dai combustibili fossili. Eppure il testo finale, denominato “Global Mutirão”, ha sorpreso per la sua debolezza.
L’esito è stato pesantissimo: alla COP 30 è svanito il traguardo dell’uscita dalle fossili!
Infatti, nel testo approvato, non c’è alcun riferimento diretto all’eliminazione graduale di petrolio, gas e carbone. Alcuni leader come il commissario europeo Wopke Hoekstra hanno ammesso che l’Ue avrebbe voluto “di più”: tempi chiari e impegni vincolanti, ma alla fine ha ceduto al compromesso al ribasso.
Dietro la scelta di escludere un piano obbligatorio c’è una resistenza netta da parte di paesi produttori di fossili, come Arabia Saudita e Russia, così come da nazioni emergenti fortemente dipendenti da gas e petrolio.
Più di 30 Paesi avevano minacciato il veto se non fosse stato incluso un impegno concreto ma alla fine, anche per il peso dei nuovi equilibri in fase di assestamento dopo la vittoria di Trump, l’accordo è rimasto su un piano volontario: l’invito “ad accelerare” le proprie azioni climatiche è generico, non ci sono scadenze vincolanti per l’addio ai combustibili fossili.
Inoltre, l’aumento dei fondi per l’adattamento (strumento cruciale per i Paesi più vulnerabili) sarà effettivo, ma la tabella è diluita nel tempo, rendendo l’impatto modesto rispetto alle necessità reali.
Molti critici – attivisti, Paesi del Sud del mondo, esperti climatici – hanno definito l’intesa “deludente” e “al ribasso”, sacrificando la scienza sull’altare dei poteri forti del fossile.
In altre parole: una vittoria simbolica del multilateralismo, ma una sconfitta pratica per la giustizia climatica. Perché questo arretramento? Non si tratta solo di tattiche diplomatiche: è in corso un vero contrattacco strategico da parte dell’industria fossile e dei suoi alleati politici. Questi attori, i famosi “poteri forti” hanno ancora un peso enorme, controllano risorse chiave, reti di lobbying, influenza geopolitica, e sono disposti a usarla per rallentare la transizione, proteggere profitti storici e mantenere il proprio potere.
Anzi, analizzando il contrattacco mediatico che si sta vivendo in questo periodo, con l’eccezione della solita Milena Gabanelli meritoria di raccontare la verità con analisi e documentazione scientifica, sembra proprio che ci sia un altissimo livello di attacco senza risparmio di risorse che si sostanzia su più livelli:
1) La diplomazia internazionale: come visto alla COP 30, paesi ricchi di risorse fossili sono riusciti a bloccare impegni vincolanti. Anche quando le coalizioni per la decarbonizzazione sono forti (oltre 80 Paesi chiedevano una roadmap), l’esito è stato smussato.
2) La finanza: molti investimenti rimangono orientati verso le infrastrutture fossili o verso gas “transitori”, nonostante la necessità di mobilitare capitali per rinnovabili, accumulo, reti intelligenti.
3) La narrativa mediatica e culturale: i mezzi di comunicazione tradizionali, spesso influenzati dai poteri consolidati, contribuiscono a minimizzare i pericoli del cambiamento climatico o a presentare la transizione energetica come un rischio economico, non una priorità urgente.
4) La burocrazia, il più subdolo dei processi che consente di rallentare, bloccare e annullare gli sforzi degli imprenditori nel raggiungere i titoli autorizzativi necessari a realizzare nuovi investimenti.
In questo processo l’Italia non fa eccezione e le stesse dinamiche sono perfettamente visibili anche da noi. Il Paese ha mostrato una chiara riluttanza nel sostenere un percorso netto verso la decarbonizzazione: infatti, non figura tra gli oltre 80 Paesi favorevoli a una roadmap vincolante per uscire dai fossili alla COP 30.
Sul fronte domestico, la transizione è ostacolata anche da politiche legislative recenti che sembrano contraddire l’essenza di uno sviluppo sostenibile: Il decreto sulle aree idonee per le rinnovabili (DL approvato a fine novembre) ha reso molti territori retroattivamente non idonei alla semplificazione, bloccando così la maggior parte dei progetti fotovoltaici o eolici anche in itinere.
A ciò si aggiunge l’annunciato decreto sulla “saturazione virtuale” della rete: secondo le critiche, potrebbe bloccare i nuovi progetti rinnovabili prima ancora che partano, sostenendo un falso argomento tecnico per frenare l’adeguato sviluppo delle iniziative.
Basti pensare che a fronte di un timore di avere troppi impianti in Italia si installano il 50% in meno di quelli previsti, con una tendenza alla ulteriore riduzione di nuove iniziative.
Queste misure normative vengono accompagnate da un attacco mediatico: su stampa e tv le voci corrosive contro la transizione abbondano. È come se si stesse disegnando una narrativa in cui l’energia pulita è un rischio per il Paese, un lusso costoso o un’utopia lontana. In questo panorama, pochissimi giornalisti ed esperti si permettono una critica forte e indipendente: tra i pochi esempi virtuosi emerge DATAROOM di Milena Gabanelli, che continua a porre domande scomode sui fili che legano potere politico, fossili e disinformazione.
Le conseguenze di un arretramento sui temi ambientali e le conseguenti ricadute sono gravi e multiple:
– Ambientali: senza un percorso chiaro per l’uscita dai fossili, restiamo esposti alla minaccia climatica. Le emissioni continuano, gli obiettivi di Parigi si allontanano, i rischi per i più vulnerabili aumentano.
– Economiche: rallentare la transizione significa perdere opportunità. Le rinnovabili, gli accumuli, le comunità energetiche sono motori di nuovo sviluppo; energie pulite che, oltre ad essere economicamente convenienti, sono anche un investimento strategico. Se non si sfruttano ora, l’Italia e l’Europa rischiano di restare indietro rispetto a chi ha già scommesso sulla green economy.
– Geopolitiche: continuare a dipendere dai combustibili fossili significa mantenere vincoli strategici con paesi instabili o in conflitto, favorire fluttuazioni di prezzo, subire ricatti energetici.
– Sociali e morali: la transizione giusta (“just transition”) non è solo un principio astratto, ma una necessità. Se rallentiamo, moltissimi lavoratori, comunità, regioni perderanno l’opportunità di un futuro equo. E dal punto di vista etico, rinunciare a un’azione decisa significa tradire le generazioni future.
Ovviamente, nonostante quanto stiamo vedendo, non tutto è perduto, ma serve una reazione rapida, intelligente e coordinata. Ecco alcuni punti su cui è urgente intervenire.
– Una mobilitazione civica e culturale: occorre rafforzare l’advocacy per la transizione, costruire alleanze tra ONG, comunità locali, movimenti giovanili, università. Raccontare una narrazione nuova, positiva, basata su dati reali e che evidenzi le reali opportunità.
– Pressione politica: chiedere ai decisori impegni vincolanti su strategie di dismissione dei fossili, su riforme delle reti elettriche, sui dovuti supporti amministrativi per la semplificazione delle rinnovabili.
– Giustizia legislativa: contrastare decreti retrogradi come quello delle aree idonee, promuovere trasparenza nelle procedure di autorizzazione, garantire che la pianificazione territoriale favorisca l’energia pulita.
– Finanza verde: attrarre capitale privato, europeo e internazionale per progetti rinnovabili, infrastrutture di accumulo, reti intelligenti. Convincere le istituzioni finanziarie che il futuro è nelle fonti pulite, non nei combustibili del passato.
La battaglia per lo sviluppo sostenibile non è un’astrazione: è una lotta concreta contro forze che hanno investito enormemente nel mantenimento dello status quo. L’accordo al ribasso della COP 30 è un chiaro segnale che questi poteri forti non sono affatto intenzionati a mollare, ma anzi cercano di consolidare il loro dominio. In Italia le misure legislative contro le rinnovabili e la narrazione mediatica ostile dimostrano che la resistenza è ben radicata e che influenza la politica anche oltre le evidenze scientifiche. Tuttavia, la scienza, la ragione e la giustizia ci dicono che non abbiamo margine per arrenderci. La transizione energetica non è un’opzione: è una necessità, morale e strategica. L’unica domanda è se sapremo mobilitarci, costruire alleanze e forzare un cambiamento reale, prima che il tempo – e il pianeta – ci chieda conto delle nostre scelte. n