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Il caso del referendum sull’estrazione di idrocarburi

Il 9 gennaio 2016 il presidente della Corte Costituzionale ha disposto il rinvio al 19 gennaio (con pubblicazione della relativa decisione entro il 10 febbraio) della camera di consiglio deputata ad esaminare, tra l’altro, l’ammissibilità dei referendum sulle norme che disciplinano la materia delle trivellazioni per l’estrazione di idrocarburi. Volendo ripercorrere le tappe della vicenda che ha condotto al ricorso costituzionale, giova ricordare come il decreto Sblocca Italia (DL 133/2014 convertito nella Legge 164/2014), riconoscendo “il carattere strategico delle attività di prospezione, ricerca e coltivazione di idrocarburi e quelle di stoccaggio sotterraneo di gas naturale”, aveva previsto che tutte le norme poste a tutela di paesaggio ed ambiente potessero essere derogate laddove fosse necessario al fine di consentire, anche attraverso la procedura dell’esproprio per ragioni di pubblica utilità, la realizzazione di opere di stoccaggio e trivellazione.

Lo Sblocca Italia prevedeva inoltre l’introduzione di un“titolo concessorio unico”in luogo dei due permessi distinti prima richiesti per poter procedere all’esecuzione di ricerche e sondaggi e poi delle trivellazioni. Si prevedeva altresì che se i progetti petroliferi avessero comportato una “variazione degli strumenti urbanistici, il rilascio dell’autorizzazione avesse effetto di variante urbanistica”.

Con riferimento alla competenza al rilascio del titolo concessorio unico, se prima della legge 164/2014 la stessa si ripartiva fra Stato e Regioni a seconda che le trivellazioni fossero da eseguire in mare o su terra, in seguito alla modifica normativa si era invece prevista la competenza esclusiva dello Stato. Da più parti si era sottolineato come la centralizzazione delle decisioni finisse col privare le comunità locali di ogni legittimazione ad esprimersi in materia, in violazione delle leggi europee che impongono la trasparenza e la partecipazione del pubblico nelle scelte che incidono sul rispettivo territorio.

A fronte di siffatta normativa, dietro la spinta di associazioni e comitati, 10 Assemblee elettive regionali sono addivenute a deliberare una richiesta di referendum popolare, prospettando 6 quesiti da sottoporre alla consultazione democratica, quesiti tutti accolti dalla Corte di Cassazione, pronunciatasi il 26 novembre 2015.

Ebbene, dopo aver impugnato la legge regionale abruzzese che vietava di trivellare lungo le coste dell’Abruzzo entro le dodici miglia marine, perché ritenuta invasiva di “materie di esclusiva competenza statale”, con la Legge di Stabilità 2016 (28 dicembre 2015, n. 208) entrata in vigore il 1 gennaio, il Governo ha presentato alcuni emendamenti che sembravano recepire alcuni contenuti dei quesiti referendari presentati dalle dieci Regioni lo scorso settembre. Le modifiche introdotte  vietano: il rilascio di nuovi permessi e concessioni per la ricerca ed estrazione di idrocarburi e proibiscono la conclusione dei procedimenti in corso; le attività petrolifere non vengono più considerate fra le opere strategiche, indifferibili e urgenti, bensì fra le “opere di pubblica utilità”; non c’è più il “vincolo preordinato all’esproprio” già a partire dalla fase di ricerca idrocarburi ed è salvo il diritto di proprietà del privato sulle aree interessate. Inoltre, probabilmente anche al fine di evitare uno scontro istituzionale, il Governo ha ripristinato il principio di leale collaborazione con le Regioni che, come nel recente passato, sono nuovamente chiamate ad esprimere una “intesa “forte” sul rilascio dei titoli minerari.
Uno degli emendamenti ripristina poi il limite delle dodici miglia anche per le licenze di trivellazione concesse prima del 2010. Il Governo non è tuttavia intervenuto sulla limitazione della durata delle concessioni in mare e ha soppresso la norma che prevedeva il piano delle aree di estrazione.

Da più parti era stato prospettato il rischio che, se i procedimenti in corso fossero stati considerati dalla norma come semplicemente sospesi, essi avrebbero potuto riprendere il proprio iter in occasione di una eventuale ed ulteriore manovra legislativa.

Le modifiche introdotte dalla Legge di Stabilità non hanno pertanto tacitato le istanze referendarie, ritenendosi la consultazione l’unico strumento idoneo a consentire la definitiva abrogazione delle norme ritenute incompatibili con l’ordinamento. Pertanto, le assemblee regionali hanno nuovamente interpellato l’Ufficio Centrale per il referendum della Corte di Cassazione, il quale, pronunciandosi l’8 gennaio alla luce delle modifiche normative ha ritenuto che, dei 6 quesiti inizialmente prospettati, soltanto uno – quello cioè che riguarda, in sostanza, la durata delle autorizzazioni a perforare ed estrarre – non soddisfacesse la richiesta dei promotori. Il Parlamento aveva infatti approvato la modifica della norma del codice dell’ambiente che consentiva la conclusione dei procedimenti in corso, prevedendo però che i permessi e le concessioni già rilasciati non avessero più scadenza. Né si chiariva che i procedimenti in corso dovessero ritenersi definitivamente chiusi e non solo sospesi. Su due quesiti, tuttavia, e cioè quelli che riguardano la durata di permessi già concessi ed il Piano estrazioni, le Regioni promotrici invero hanno ritenuto non condivisibile la decisione della Corte di Cassazione, sollevando pertanto un conflitto di attribuzione rispetto al Parlamento davanti alla Corte Costituzionale, sul rilievo per cui lo Stato, nel cancellare il Piano estrazioni malgrado la scelta della Cassazione di accogliere tutti i sei quesiti referendari, si fosse auto-attribuito poteri ad esso non spettanti.

Dall’abrogazione referendaria deriverebbe un vincolo per il legislatore, che non potrebbe più rimuovere il divieto di cercare ed estrarre gas e petrolio entro le 12 miglia, ma anche l’obbligo per la pubblica amministrazione (il Ministero dello Sviluppo economico) di chiudere definitivamente i procedimenti in corso, finalizzati al rilascio dei permessi e delle concessioni. Nel dettaglio, sono nove le Regioni, fra le 10 che avevano depositato i quesiti referendari, ad aver sollevato il conflitto di attribuzione: Basilicata, Marche, Puglia, Sardegna, Veneto, Calabria, Liguria, Campania e Molise, ora tutte in attesa della decisione della Corte Costituzionale, che verrà pubblicata entro il 10 febbraio. Si tratta di una decisione, a ben vedere, di importanza strategica affinché, anche tramite una maggiore chiarezza con riferimento ai confini entro i quali sono consentite determinate attività a forte impatto ambientale, quali certamente sono quelle estrattive, possa in qualche modo agevolarsi la tanto auspicata transizione energetica, che consenta un impiego delle risorse maggiormente conforme al rispetto del patrimonio naturale e dell’ambiente.